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Notes from Outside
Notes from Outside
/Numero 20

Un ciclista e la sua bici gravel alle prese con la savana

Ryan Le Garrec
/7 minuti di lettura

In questo numero di Notes from Outside condividiamo una storia un po’ diversa dalle precedenti. È il 2021 quando Ryan Le Garrec si trova nella hall di un hotel in Kenya: è sul punto di abbandonare la Migration Gravel Race prima ancora di iniziarla. Un discorso di incoraggiamento, qualche sigaretta e 25 caffè dopo riesce però a ritrovare la motivazione. E inaspettatamente la gara si trasforma in una grandiosa lezione di umiltà e di vita. Ambientato in Africa e scritto in uno stile poetico unico, il numero di Notes from Outside di questo mese ti sorprenderà sicuramente.

Catherine

Editor – Notes from Outside

Nairobi.

Due giorni prima della gara.

Hall dell’hotel.

Non mi sento a mio agio.

Non oso nemmeno togliere la bici dal cartone.

E se avesse un guasto?

Sistemarlo ora mi farebbe sentire ancora più stressato.

Non voglio lasciare l'hotel.

Non sono pronto per il trambusto di una città africana.

Non mi sento a mio agio.

Altri ciclisti vestiti di tutto punto

escono per fare una sgambata.

Sembrano in forma.

Sembrano freschi.

Sembrano pro.

Ho i postumi di una leggera sbornia.

Rollo una sigaretta.

Sono al 25° caffè.

Non mi sento a mio agio.

Non sono a mio agio.

Sto per essere masticato vivo e risputato fuori,

schiacciato come un insetto nel Masai Mara.

Vado da Mikel [Delagrange], l'organizzatore della gara.

“Sono spaventato”, gli dico.

“Come faccio a ritirarmi dalla gara?”, gli chiedo.

Pensa che mi voglia ritirare.

Dalla sua bocca escono parole di incoraggiamento.

"La cosa peggiore che puoi fare è stressarti prima ancora di iniziare. Andrai a pedalare nel Mara, pensa solo a questo!"

Il sole picchia.

Ho affrontato salite per tutta la mattinata, ora finalmente un po' di tregua.

Finché non noto una zecca.

Perché sono partito?

Guardo quella piccola creatura nera.

Succhia il mio sangue. Se ne nutre.

Mi pento di aver lasciato la pinzetta da zecche nella valigia.

Ho letto delle zecche africane.

Presto la mia gamba si gonfierà, mi verrà la febbre e poi...

Sono l’ultimo sul tracciato.

La moto scopa è proprio dietro di me.

Il suo compito? Ricognizione del percorso. Proteggere i corridori in fuga da pericolosi predatori.

Duncan non è la mia guardia del corpo masai. Ma è come se lo fosse.

Conosce i veri pericoli della zona.

Non parliamo molto.

Provo a pedalare accanto a lui, lui rallenta accorciando la distanza che ci separa.

Lo conosco poco.

Lo osservo.

Non posso farne a meno.

Ha lo sguardo di chi sa qualcosa che io non so.

Di certo sa molto più di me su questo posto.

Duncan mi parla un po' della cultura Masai.

Di come i ragazzi siano soliti uccidere leoni come rito di passaggio all'età adulta.

Di come, da giovani, si trascorra molto tempo nella foresta.

Di come si viva in armonia con la fauna selvatica.

Probabilmente è più preoccupato dei leoni che della zecca sul mio polpaccio.

Gli faccio un cenno col braccio, felice di averlo vicino.

Voglio mostrargli la zecca.

Mimo l'insetto che mi succhia il sangue.

Mi osserva con sguardo calmo.

Parcheggia la moto.

Scende e si avvicina al mio polpaccio.

Mi pizzica la carne intorno alla zecca. 

La guarda più da vicino, la tocca.

“Non farla arrabbiare o rilascerà altro veleno nel mio sangue”, vorrei dirgli.

Ma non parlo. 

Lui ne sa più di me.

“Il sangue è secco”, dice. “Una spina ti ha graffiato la gamba”.

“Perché fa così male?”, chiedo.

“Qui le spine sono velenose, ma nulla di grave.”

Guardo il suo ginocchio.

È scorticato.

“Sono appena caduto, ma nulla di grave”.

Io mi lamento per un graffio. Lui ha un ginocchio aperto e fa spallucce.

Mi sento stupido.

La gara è dura.

Giorno 1: rocce e vento contrario.

Giorno 2: altitudine e singletrack impegnativi.

Continuo. 

Lento, ma costante.

Giorni 3 e 4: più sterrato, più velocità.

E quando la strada si fa di nuovo accidentata, tra rocce grandi come la mia testa appaiono giraffe ed elefanti.

Vedere un elefante libero nella natura mi fa passare la voglia di pedalare.

In realtà la gara non è poi così dura.

Ogni sera trovo la mia tenda al campo base.

È già montata, con i bagagli dentro.

Un lusso.

Il team di meccanici locali ripara ogni cosa che richieda assistenza.

Puliscono anche la bicicletta, che ogni mattina sembra nuova di zecca.

Un lusso.

Ogni giorno la colazione viene cucinata sul falò.

Tè e caffè, uova, pane tostato e salsicce.

Un lusso.

Nel mezzo del Masai Mara del Kenya

c’è anche una doccia.

Un bagno.

Un lusso.

“I corridori gravel sono veloci”, penso,

“ma anche viziati”.

Hall dell'hotel.

Colazione.

Sono giù di morale.

Niente più emozioni, ritorno alla vita normale.

Chiedo a un compagno di viaggio se anche lui si sente un po' giù.

"Sì. Mi succede sempre dopo una gara...”, dice.

Mi conforta.

Sono già stato in questa stessa hall, con i postumi della sbornia e la tentazione di ritirarmi dalla gara.

Ora invece non voglio che finisca.

Questa sbornia è decisamente diversa.

Dai qui un'occhiata alla Raccolta di Ryan sulla Migration Gravel Race.

Testo e foto di Ryan Le Garrec

Ryan Le Garrec è un regista e storyteller che ha scoperto il ciclismo d'avventura grazie a un secondo lavoro come bike messenger che gli ha cambiato la vita: da allora la sua bicicletta lo accompagna in quasi tutte le avventure, insieme alla sua penna e alla sua macchina fotografica.

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