Una serie infinita di pini, un cancello che cerca di spingersi verso il cielo e un groviglio di catene in cui la ruggine sembra averla avuta vinta sulla lega metallica sono la scenografia che cerca di celare agli occhi dello spettatore uno dei dietro le quinte più inaspettati che si possa immaginare in terra d’Abruzzo: la badia di Mejulano.
Complesso monumentale dalla storia lunga e stratificata oggi in veste architettonica ottocentesca, la badia è una fondazione medievale che nasce come insediamento monastico: benedettino prima e celestiniano poi. Dichiarato «nullius diocesis»(status di autonomia rispetto alla diocesi di appartenenza) nel 1574 ed elevato al rango di Badia nel 1616, ricoprirà in seguito alla legge di soppressione dell’Ordine Benedettino del 1807 funzioni molto distanti da quella originaria: bacologico; campo profughi; campo di concentramento e preventorio antitubercolare. Fino a quella di pochi anni fa: sede di un liceo aeronautico.
Dei suoi primi anni di vita i dati in nostro possesso sono pochi. Un primitivo edificio dovette adagiarsi sul sito dove in epoca romana sorgeva un tempio consacrato alla dea Flora. Ne dava testimonianza una lapide celebrativa una volta custodita sull’altare maggiore: «Quanto ora ben sta, là dove Flora fu un tempo […]». D’altro canto, le indagini archeologiche condotte a inizio anni ‘90, hanno permesso di individuare strutture appartenenti a un fabbricato del periodo tardo repubblicano, probabilmente una villa romana. All’XI secolo risalgono i primi riscontri archivistici relativi alla badia. In un documento appartenente al Cartulario della Chiesa Teramana, vergato a Corropoli nel 1018, un uomo di nome Giasone dona al vescovo aprutino Pietro II i suoi possedimenti, confinanti con «sancta Maria ad Moiulano». Alcuni decenni più tardi, nel 1063, una seconda donazione di beni terreni allude alla vicinanza con «Santa Maria di Mocluciano…».
Dai documenti è inoltre possibile ricostruire i rapporti dell’abbazia con la casata degli Acquaviva, che acquisì la proprietà del monastero attraverso Imperatrice d’Archi, seconda moglie di Matteo Acquaviva, che nel 1309 acquistò il complesso da Oderisio III, la cui famiglia tenne in feudo Corropoli dal 1150. Furono proprio gli Acquaviva a voler portare a Mejulano, fino ad allora dipendente dal monastero di San Pietro di Ferentillo nella diocesi di Spoleto, i Frati Osservanti di San Pietro Celestino. Con una bolla firmata dal Duca Eusebio di Ancajano, abate del monastero spoletino, in risposta a una missiva inviata dal duca Andrea Matteo III, il 12 dicembre 1497 si acconsentì il passaggio della Prepositura di Santa Maria di Mejulano, rimasta vacante, nelle mani della congregazione fondata da Pietro del Morrone. Alcuni anni dopo arrivò la conferma papale (vergata da Leone X nel 1514) di quanto stabilito dalla bolla. Iniziò così la stagione più florida dell’abbazia.
I monaci celestini promossero a partire dagli anni trenta del Cinquecento l’ampliamento della struttura. L’ambizioso progetto (desumibile dagli scritti di Ludovico Zanotti e da un documento del 27 maggio 1807, oggi all’Archivio di Stato di Teramo), diviso per «quarti», trasformò il cenobio, con nuove dotazioni: trentatré nuove celle singole; un’intera ala nella zona nord-ovest dell’edificio riservata all’abate; stanze per gli uffici di curia; una biblioteca; la sala capitolare; i magazzini e la foresteria per accogliere ospiti e pellegrini; uno studio medico; una spezialeria e, tra il 1580 e il 1620 circa, a chiusura della lunga campagna di lavori, una chiesa ingrandita e inglobata nel complesso monastico. Unico retaggio della precedente fabbrica medievale, la torre campanaria di pianta quadrata vide l’aggiunta di un piano per le campane, mentre la merlatura che oggi vediamo è un intervento «in stile», di molto posteriore.
La millenaria storia religiosa della badia giunse al termine con la soppressione del 1807 e il successivo passaggio in mani private, quelle del Principe di Piombino e Duca di Sora Luigi Ludovisi Boncompagni, che acquistò la badia nel 1813 per poi venderla, nel 1856, a vari possedenti della zona.
Si colloca con molta probabilità in questi anni la trasformazione dell’edificio in chiave neogotica: un cambio di pelle che non toccò le strutture portanti della fabbrica celestina ma volle aggiornare la sua decorazione esterna con uno stile consono alle mode dell’architettura storicista ottocentesca, che nell’ ambito della rivalutazione del Medioevo, che investì l’Europa di quegli anni, aveva dato luogo a un vero e proprio filone nella progettazione di villini privati, filone che interessò anche il territorio teramano, se pensiamo ad esempio al Castello Della Monica o a quello Bonifaci in Vallinquina di Valle Castellana.
L’epidermide neogotica dell’edificio si estende per tre lati della fabbrica (quello restante, a nord, per ragioni non meglio note non vide completata la sua veste neomedievale). Realizzata interamente in laterizio, affida gran parte della decorazione ai motivi in aggetto: profilature, cornici e fasce che alternano pieni e vuoti, vivacizzano la monocromia del materiale. I lati si distinguono per la regolare successione di vani, che nel lato principale e in quello sud assumono terminazioni gotiche (ad arco acuto nel primo piano e trilobate nel secondo). In corrispondenza di due degli angoli del rettangolo che forma la pianta del edificio, sono situati due fabbricati a media luna che si coronano con una specie di piccolo terrazzo, uno spazio da dove affacciarsi quasi come da un pulpito esterno, decorato con oculi a quattro lobi.
Punto focale del progetto è la facciata di ingresso all’ex chiesa, a tre ordini sovrapposti collegati da quattro semicolonne ottagonali giganti. Campeggiano al centro di essa tre oculi: vere e proprie luci quelli laterali, identici e simmetrici; cieco e più grande quello centrale, ricalca forse la posizione di quello della chiesa più antica. Su quest’ultimo si innesta il marcapiano, che è dotato di un profilo acuto al di sopra della lunetta ogivale dell’unico portale, rettangolare e architravato. Un ultimo elemento ricorda all’osservatore di rivolgere lo sguardo verso l’alto alto, evocando, seppure in modo meno audace, la spericolata verticalità delle cuspidi gotiche: il frontone triangolare, accompagnato da colonne mozzate quasi a mo’ di guglie che lasciano una strana sensazione di anomalia.
Non è difficile scorgere all’interno del frontone una stella a sei punte, simbolo sovente associato a letture esoteriche che, secondo lo studioso Marcello Sgattoni, potrebbe essere un indizio del fatto che la trasformazione neogotica dell’edificio (di cui non possiamo accertare l’artefice né la committenza) non poté essere avvenuta sotto i celestini ma necessariamente dopo. Sgattoni ha anche notato nella facciata dell’ex chiesa un «respiro più romanico» rispetto alle restanti parti, dove sembrerebbe più evidente il gusto per i piccoli accorgimenti gotici, e ciò potrebbe suggerire (sebbene lo studioso non si sbilanci) che in qualche modo l’architetto neogotico possa aver mantenuto l’impaginazione generale della facciata romanica per una questione di praticità o anche per non cancellare del tutto quella che dovette essere la faccia più caratterizzata dell’edificio. Solo ulteriori e illuminanti ricerche potranno far luce su questa fase del passato della splendida badia che, nascosta da un sipario di pini, si mostra inizialmente timida allo sguardo dello spettatore, salvo poi ripensarci e mostrarsi nella sua imponenza, immersa in uno scenario tanto suggestivo quanto cinematograficamente conturbante.
Testo: Diana Sainz Camayd